Chapeau, Monsieur Lentini
(dedicato a Nunzio, Anja, Floro, Tonino, Diego e tutti quelli che da tanto lontano conservano il cuore a Cosenza)
E' la domenica di Cosenza - Treviso.
Un inatteso invito di mia Zia ha cambiato la tradizionale routine della
domenica e stravolto i piani di avvicinamento alla partita.
Non più Messa alle 12,00, pranzo a seguire e subito dopo in marcia verso lo
stadio.
Oggi occorre tener conto del fatto che lei abita a Malito e, quindi,
considerando i necessari tempi tecnici di spostamento, l'orario di partenza
con la famiglia deve essere anticipato e il programma mutato.
Del resto, è un invito che non si può rifiutare.
E' tornata mia cugina da Roma con l'ultimo nato, Giuseppe, che non vedo da
Natale ed ho voglia di giocare con lui. Non solo. C'è anche l'altra cugina
che vive a Bologna. E' l'occasione per tutti noi di ritrovarci.
L'unica nota dolente è costituita dalla cucina di mia Zia, che non ha mai
brillato per originalità.
Quando ci mettiamo in marcia, viene giù il diluvio universale.
Superata la prima galleria dopo lo svincolo di Cosenza Sud, la pioggia
diventa acqua-neve, poi grandine, poi non si capisce cos'altro.
Mi sembra di andare al pranzo di Natale.
Comincio a pensare che con questo tempo forse non è il caso di rischiare una
polmonite per vedere la partita.
Al diavolo! Proprio in occasione della giornata rossoblù.
Vuoi vedere che è un segno del destino.
Ci pensano le figlie a distogliermi dai cattivi pensieri: con loro, un
viaggio in auto è scandito costantemente dalle grida di mia moglie perché
stiano ferme e non slaccino le cinture di sicurezza, dalle quali
invariabilmente sgusciano via con disarmante facilità.
Quando arriviamo a destinazione raggiungo la certezza che è proprio Natale:
la pioggia è gelida ed è scesa pure la nebbia.
Comincio seriamente a dubitare di potere vedere la partita allo stadio.
Mio Zio, poi, ci mette del suo: un altro fratello di mia madre è abbonato a
Telepiù ed ha riunito a casa sua un gruppo di amici.
Sua moglie, tra l'altro, cucina molto bene.
All'una spiove e la nebbia diventa meno fitta.
Ho deciso. Si va.
Stranamente mia moglie non muove nessuna obiezione.
La cosa mi colpisce e mi domando come mai
Forse è contenta che mi levi dalle scatole; oppure spera che la cosa nutra i
miei sensi di colpa e mi spinga ad essere più remissivo - se ancora fosse
possibile - nei suoi confronti.
Non oso sperare che abbia capito quale grande passione sia per me il
Cosenza.
Nel frattempo il tempo scorre e di pranzare neanche a parlarne.
Ho adocchiato l'antipasto: olive nere, capicollo, soppressata e bocconcini.
Nulla di trascendentale, giacché le olive sono insulse, il capicollo troppo
grasso e le mozzarelline, mozzarelle, ossia inutili.
In compenso la soppressata, tradendo il suo pessimo aspetto, è saporita e
presenta un insolito retrogusto di affumicato; i pezzettini di una pitta,
poi, si sposano a meraviglia.
Meglio non correre rischi e fare provvista.
Alle due meno venti, mentre gli altri si mettono a pranzo, saluto e vado
via.
Conoscendo mia Zia, ed avendo sbirciato in cucina, so che rinuncio,
nell'ordine, a ravioli in salsa rosa, tagliatelle al ragù, carme di maiale al
sugo, capretto al forno, piselli e patate fritte (fredde - ha la pessima
abitudine di preparale con un giorno di anticipo), macedonia, dolce.
Se ci fosse stata la parmigiana di melanzane alla napoletana, la scelta
sarebbe stata assai più difficile; il nome contiene in sè un ossimoro: se è
una parmigiana, non può essere napoletana. Boh!
Il piatto, al di là delle difficoltà terminologiche, è semplice e
straordinario al tempo stesso: bisogna soffriggere leggerissimamente le
melanzane dopo averle passate in un po' di farina e nel rosso d'uovo,
riporle nel tegame con abbondante salsa, realizzare diversi strati ricoperti
di caciocavallo ed infornare. Si scioglie in bocca.
Sono uscito.
Quando chiudo la porta alle mie spalle, avverto il consueto senso di libertà
che provo quando vado allo stadio.
Anche mio cugino va alla partita, ma non voglio andare con lui.
Voglio stare solo con i miei pensieri e le mie emozioni.
Io e il mondo, io e il mio Cosenza, io e il mio popolo di tifosi.
Voglio avvertire ed assaporare lentamente le emozioni che precedono ogni
incontro; è una passione profonda e troppo intima: per poterla condividere
c'è bisogno di una autentica comunione di spirito.
Altrimenti, meglio restare in silenzio e da soli.
Mentre guido, anche la radio mi dà fastidio.
Mi riprendo in prossimità dello svincolo e comincio a cantare i cori della
curva.
A questo punto mi concentro su tutti i riti scaramantici da osservare prima
della partita.
Con la macchina compio un giro tortuoso per raggiungere il solito posto.
Nonostante non ci sia traffico e sia quindi concreta la possibilità di
lasciare l'auto a pochi metri dallo stadio, parcheggio a circa due
chilometri di distanza, subito dopo Piazza Europa.
Dal cofano tiro fuori il solito ombrello, scomodissimo, ingombrante e
pesante: quanto di più controindicato da portare allo stadio.
Anche se manca quasi un'ora all'inizio della gara, mi sento in ritardo ed
accellero il passo fin quasi a correre.
Non mi sorprendo di me stesso: non sono ansioso e so perché avverto questa
voglia di andare di fretta.
Sin da piccolo ho sempre amato lo spettacolo dello stadio e dei colori che
accende; mi è sempre piaciuto osservare il verde del prato, condizionato
forse dalle straordinarie descrizioni di Vladimiro Caminiti.
Ed anche ascoltare i commenti e le aspettative dei tifosi, per me è
bellissimo.
Sarà una forma di voyeurismo, ma mi immerge nella vita e nei sogni dei
miei concittadini, persone che nella stragrande maggioranza dei casi mi
rimarranno sconosciuti, per un istante vicini ed uguali .
E poi, entrando in uno stadio si ha la sensazione di immergersi in un luogo
senza tempo, dove il mondo, per un paio di ore, non entra.
Ridiventiamo tutti bambini, pronti a seguire una palla bianca su un tappeto
verde.
Arrivato nei pressi dello stadio, noto un ragazzo che vende il giornale dei
Nuclei Sconvolti.
Si avvicina e prova a vendermelo.
Gli rispondo che non è quello il luogo.
Lui mi guarda con aria interrogativa e stupita.
Vagli a spiegare che in realtà il giornale lo devo comprare immediatamente
prima dell'ultimo semaforo, che chi me lo vende mi deve dare indietro il
resto ed io lo devo bloccare, lasciandogli, invece che 1.500 Lire, 2.000
Lire: un piccolissimo gesto di gratitudine per chi lo realizza con cura e
fedeltà.
Nel frattempo, sono già arrivato al punto esatto e mi appresto all'acquisto.
La domenica della partita con il Cagliari, quel disgraziato si è tenuto
direttamente 2.000 Lire e noi abbiamo perso.
Speriamo che questa volta tutto si svolga secondo copione.
Ed in effetti così va: il ragazzo fa per rendermi il resto nella misura
giusta, ma lo fermo e porto a compimento il rito.
Stavolta decido di andare in Curva Nord.
Le scaramanzie si sono concluse: ora la parola passa al campo.
Alla mia destra si siedono due uomini che non conosco, dall'accento
cosentini veraci.
Alla mia sinistra, invece, si siede un tizio che conosco di vista e che so
essere un allenatore di calcio.
La sua presenza un po' mi infastidisce.
Sono venuto in curva per godere soltanto della passione e non ho voglia di
stare ad ascoltare disquisizioni tecniche; soprattutto ho voglia di
avvertire il trasporto del tifo e temo di irritarmi per la presenza di chi
guarda la partita con occhi asettici e professionali e non si lascia
condurre dalle emozioni.
Ho timore che possa togliere poesia.
Per fortuna, tra me e lui si frappone un suo amico, dall'accento non
cosentino, che funziona da barriera.
La partita ha inizio.
Si capisce subito che il Treviso vuole provare a vincere, del resto dal
pareggio trarrebbe poco giovamento.
Quando la palla, beffarda, entra in rete, non mi scoraggio; penso che in
questo campionato non abbiamo ancora avuto occasione di vedere una rimonta
al San Vito: evidentemente è giunto il momento.
E così quando Zampagna pareggia su rigore, tutto assume i contorni di un
copione sognato: pari entro la fine del primo tempo, gol della vittoria nel
secondo.
Nel frattempo comincia a piovere.
Non vorrei aprire l'ombrello, è troppo grande ed inibisce la visuale al
tizio che è seduto dietro.
Quello, commosso ed ignaro, mi invita a coprirmi con il suo.
A quel punto sono quasi costretto a tirarlo fuori e a servirmene; con il
risultato che sempre quello di dietro di arrabbia, visto che il mio
ombrellone, così lo chiama, non gli fa vedere niente.
Segna Parisi, colpo di culo, e tutto sembra scontato.
E invece sbuca dal nulla un tizio che, su calcio d'angolo, indovina il gol
della sua vita e siamo di nuovo punto a capo.
Si ricomincia a soffrire. Mai una volta che si possa vincere in
tranquillità. Ma tant'è.
La tensione sale, la pressione pure, ma la palla non gonfia la rete.
Quando Savoldi mette il suo piede tra il pallone e Lentini, impedendogli il
tiro, ho la sensazione di sentire fisicamente il dolore della botta.
La rabbia prende il sopravvento. Non so come scaricarla. Vorrei rompere
qualcosa scagliandola in terra. Ma non posso certamente buttare l'ombrello
che, grosso com'è, farebbe male a qualcuno.
Così ho la bella pensata di gettare il cappello che, ovviamente, finisce in
una pozza d'acqua e si bagna.
Rimbambito come sono, avverto il freddo alla testa rasata di fresco e,
quindi, lo riprendo da terra e lo indosso nuovamente. Fradicio. Sono un
autentico genio!
A quattro minuti dalla fine, faccio pausa.
Mi rendo conto di non soffrire eccessivamente.
Il treno della promozione rischia di passare definitivamente ed io non provo
la tensione di tante altre partite.
Ma anche questo non mi sorprende: so che la mia sofferenza raggiunge il
culmine quando siamo in vantaggio e corriamo il rischio di vanificare il
tutto con qualche fesseria.
Non ho voglia di approfondire i motivi di queste paure, certo è che ora
penso che comunque vinceremo. Non so bene se questo pensiero corrisponda
effettivamente ad una sensazione provata, oppure sia stato indotto dalla
necessità di acquisire serenità. Mi pare di rivivere i momenti conclusivi
di un'altra partita, quella con l'Ancona.
Poi Altomare dà la palla a Lentini.
Tante volte ha superato il suo uomo.
Dai Gigi, fa l'ultimo sforzo.
Provaci!
Salta il marcatore, si accentra, salta il secondo
La palla è sul destro, la posizione è quella giusta
Il corpo si tende, il collo del piede percuote il pallone
Un lungo, lunghissimo istante
La traiettoria si disegna nell'aria, l'arco compie la sua corsa
Il dio del calcio allontana gli scarpini volgari dei difensori dalla
freccia, nessuno sbrego sul quadro dell'artista
Il volo plastico di un uomo disperato non impedisce alla palla di spegnere l'ultimo
battito di vita in fondo ad una rete
E' Gol!
Un urlo squassante esce dalla gola
Le mani chiuse protese in avanti
La voce che non cade
Un lungo grido comune a tutto lo stadio che non si interrompe
Un bambino, di quelli vestiti alla moda, mi compare di fianco
Dove sono finiti i miei vicini?
Avrà dieci anni, probabilmente mi darebbe del "lei"
Mi guarda
Lo guardo
Io ricomincio ad urlare
Mi guarda
Lo guardo
Ricomincio ad urlare
Mi guarda
Lo guardo
E' pazzo, penserà
Chapeau, Monsieur Lentini
E Grazie!
Lettera Firmata