PASSIONE
Io non volevo andare a Crotone: mi basta soffrire una volta ogni quindici giorni.
Non volevo neanche vedere la partita per televisione: mi agito troppo.
Figurarsi se potevo ascoltare la cronaca per radio.
Avevo deciso di non guardare la trasmissione di Fazio, che secondo me porta jella: tutte le volte che l'ho fatto, il Cosenza ha perso.
E tuttavia la tentazione è troppo forte.
Accendo la televisione, mi sintonizzo su Raidue e all'improvviso compare la sovrimpressione:
Crotone 0 - Cosenza 1.
Devo uscire.
Non posso restare a casa; non posso aspettare la fine della partita e morire di tensione.
Devo scendere giù, non devo ascoltare più niente, devo correre; ho la sensazione che se non esco prima possibile arriverà la brutta notizia del pareggio.
Presto. Devo fare presto.
Mia moglie mi dice: "Aspettami, vengo anch'io. Facciamo una passeggiata insieme".
"Sì, d'accordo, ma sbrigati".
"Sbrigati, non è il momento di asciugare i bicchieri".
"Cosa ti importa dei bicchieri!".
Non resisto. Scendo le scale ed esco sulla strada.
Mia moglie non arriva. E Muoviti!.
Busso al citofono.
In quell'istante apre il portone: "Il Crotone ha pareggiato".
Dannazione, lo sapevo.
Chiedo a mia sorella che nel frattempo ha risposto al citofono: "Quanto stiamo?"
La conferma.
Maledizione. Maledizione. Maledizione. Maledizione.
La colpa è tutta di mia moglie che ha impiegato troppo tempo ad asciugare quei maledetti bicchieri.
Ma che cosa gliene fregava: ci avrebbe pensato mia madre.
Il Crotone non avrebbe pareggiato.
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Ci avviamo per la passeggiata.
Cerco di razionalizzare.
Mia moglie non ha nessuna colpa. La colpa è solo mia che mi sono fatto ricontagiare da questa passione incontenibile. Si era sopita, ormai. Umiliata da tanti campionati senza entusiasmo, spenta da tanti sbagli, mortificata da scelte ed atteggiamenti incomprensibili.
Suvvia, calmiamoci.
Svolgo un lavoro di responsabilità, dalle mie decisioni dipende la vita delle persone, sono un padre di famiglia.
Ho una certa età.
Non posso comportarmi come un bambino e rincorrere le emozioni che mi procura una squadra di calcio. Undici ragazzi in mutande, viziati, strapagati, che corrono dietro a una palla che rotola.
Ho una dignità. Occorre ricomporsi.
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Per cinque minuti non parlo.
Entriamo in un bar e la tensione comincia a sciogliersi.
Mi astengo rigorosamente dal chiedere il risultato. Fuggo le radioline di un distributore di benzina.
Ci avviamo verso Corso Mazzini. È chiuso al traffico: è la prima giornata dell'anno senza auto.
Lo scenario è insolito. Il cielo è grigio ma non fa freddo.
Non ci sono auto né persone.
All’altezza di via Molinella si sente un sospiro collettivo.
C’è un club di tifosi.
Non resisto, mi avvicino e chiedo: "Quanto stiamo?".
"Uno a uno", mi risponde un tizio che si affaccia sul balcone.
"Per chi?", chiedo rintronato.
"Uno a uno", ribadisce l’uomo, incapace di comprendere se non ho sentito o se sono rimbambito.
Esce sul balcone uno che mi conosce: "Dottò, salite".
"No grazie, soffro troppo".
Vede mia moglie e chiede scusa, intuendo la sua contrarietà.
Pochi metri prima di Palazzo degli Uffici alcuni ragazzini giocano a pallone.
La strada è finalmente loro.
Non posso fare a meno di notare che tante finestre e balconi sono chiusi.
Corso Mazzini è diventata una via senza vita, grigia e senza fiori.
Mi piace immaginare che al posto del nero dell’asfalto ci sia il verde di un giardino sul quale giocano i bambini.
All’altezza di Bertucci ci giriamo.
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Sono tranquillo, sono le 16,00: ancora il secondo tempo non sarà iniziato.
So che cosa mi aspetta; so che devo fare attenzione ai rumori, all’eventuale boato.
Ma devo anche evitare di trascurare mia moglie: se starò zitto ed assorto capirà che non la sto a sentire mentre parla.
E lei parla, parla, parla.
Non mi chiedete che cosa abbia detto.
Percorriamo la salita di Pagliaro, siamo nei pressi di Piazza Fera.
Silenzio.
Poi un piccolo boato.
Ho il cappello che mi ripara le orecchie, i rumori giungono attutiti.
Il rumore è stato troppo lieve. Non mi convince del tutto.
Tento di darmi un contegno. Non devo chiedere.
Mia moglie continua a parlare. Di che cosa non so.
Passa una macchina. Qualcuno grida: "Pavone".
Ha segnato! Ha segnato!
Siamo in vantaggio.
Devo stare calmo.
Che ora è?
Le 16.25.
Ed allora corri maledetto orologio. Corri. Corri.
Ma non chiedo conferma a nessuno.
Percorriamo Via Caloprese.
Incontriamo un nostro caro amico con la moglie.
Sono appena usciti da casa.
Lui mi fa: "Il Cosenza pareggia".
Non mi smonta. Ho la segreta certezza che siamo in vantaggio.
Ci salutiamo. Mi impegno a chiamarlo per andare insieme allo stadio domenica prossima.
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Giungiamo sotto casa dei miei. Mia moglie ha un impegno. La lascio dai miei genitori e prendo la macchina.
Arrivo a casa, ho del lavoro da fare.
Ma sono troppo agitato.
Sono le 16,40.
Ho deciso.
Accendo il televisore. Mi sintonizzo sul programma di Fazio.
Attendo che compaia la sovrimpressione.
E crollo.
Crotone 2 - Cosenza 1.
Ma come è possibile?
Quel piccolo boato allora era di disperazione.
Quell’urlo era contro Pavone. Avrà sbagliato un gol già fatto.
Ma no, non è possibile!
Eppure la scritta ricompare.
Accendo la radio.
Maledetta radiolina digitale. Nessun segnale è tanto forte da consentire l’individuazione di una stazione.
Poi la voce di Piero Bria: "Il Cosenza sta per fare entrare sul terreno Guidoni. Entrerà presumibilmente al posto di un attaccante… ".
Ma perché Mutti inserisce un attaccante al posto di un altro, forse…
"…si tratta ovviamente di una scelta finalizzata a perdere un po' di tempo. Il Cosenza con il gol di Pavone…"
E vai.
Vai.
Vai Cosenza che stai vincendo.
Pavone. Pavone. Pavone.
Maledetti incompetenti della Rai; ci deve essere il titolista che tifa per il Crotone.
Ed ora che faccio?
Mancano almeno cinque minuti alla fine del tempo regolamentare. E sicuramente altri cinque minuti di recupero.
Di lavorare nemmeno a parlarne.
Non posso stare a casa.
Devo uscire. Devo uscire.
Devo far passare questi dieci minuti.
Farò il giro del palazzo e poi arriverò al Viale Parco. Magari entro dal piccolo varco rimasto aperto e mi faccio un breve tratto.
Scendo le scale a piedi. Non voglio più sentire rumori.
Mi metto a cantare sottovoce.
" Forza Lupi, Forza Lupi, dalla curva si alzerà. Noi ti amiamo e ti adoriamo, siamo del Commando Ultrà".
Devo tenere la mente occupata. Devo continuare a cantare incessantemente lo stesso ritornello. Non devo sentire niente.
Faccio il giro del palazzo, arrivo al tratto iniziale del Viale Parco.
Torno indietro.
Canto, canto, canto.
Salgo le scale.
Apro la porta.
Accendo la radio.
"…con questi tre punti il Cosenza…".
Ed è Gioia!
Gioia. Gioia. Gioia.
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Sono stravolto, stanco.
Ho un mal di testa che stringe la parte sinistra dal capo. Mi sento come se avessi giocato un partita di due ore sotto la pioggia e al freddo.
Ma incommensurabilmente felice.
Il cuore si placa, la calma si impadronisce di me: il sapore della vittoria è sempre dolce.
Non è razionale tutto ciò, non è da persone adulte e mature.
Me ne rendo conto.
Ma è passione.
Passione incontrollabile e totalizzante, comunione con tutti i miei fratelli tifosi, che gridano gol allo stesso modo in curva e in numerata.
E’ un'unica grande scossa che percorre la schiena, che lega un popolo.
Che fa gridare una città e la sua provincia.
E’ l’amore per due soli colori.
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Mi vien di cantare, a me che nella vita non ho fumato nemmeno una sigaretta, "Ovunque andrò griderò Forza Cosenza, fumerò la marijuana, canterò e griderò".
Lettera Firmata